LE TORRI DA VIGNA DI FIRENZUOLA: UNA TESTIMONIANZA DA SALVARE
Caratteristiche del paesaggio della Romagna Toscana, assicuravano il controllo delle vigne e non solo. Il ruolo degli amministratori locali.
Le torri da vigna caratterizzano (o meglio caratterizzavano, visto l’esiguo numero sopravvissuto) il paesaggio agrario del territorio di Firenzuola e degli altri comuni dell’Alto Mugello e della Romagna Toscana(bellissima quella di Portico di Romagna, provincia Forlì-Cesena). Qualcuna è rimasta, quasi irriconoscibile, anche in Mugello nel territorio di Barberino (una nella valle del torrente Aglio e una lungo la strada che porta a Rezzano presso Gagliano).
Le torri si innalzavano sempre isolate nella campagna e punteggiavano varie zone del firenzuolino. Pur espressione dell’architettura rurale minore, fino alla prima metà del secolo scorso svolgevano un ruolo importante tra le popolazioni della montagna. Oggi che sono quasi tutte scomparse, rimangono pressoché sconosciute e misteriose ai più (qualcuno le scambia per torri medievali) e non hanno lasciato tracce neppure nell’immaginario collettivo, se non in qualche raro vecchio abitante . Ma per il loro significato storico particolare, sono tuttavia una testimonianza da preservare e tutelare oltre che da riesumare dall’oblio. Proprio perché le torri superstiti sono rimaste così poche, vanno salvate dall’abbandono e dalla rovina in quanto vere e proprie emergenze archeologiche del paesaggio.
Ma qual è stata la loro origine e la loro funzione? Cosa ci fanno le torri da vigna in zone dove oggi di vigne non c’è più la minima traccia? Perché vanno salvaguardate? Cosa possono fare i proprietari e gli amministratori locali?
Il quadro storico
Coltivare una vigna in montagna e in alta collina, com’è gran parte del territorio di Firenzuola e degli altri comuni della fascia appenninica, non é mai stato facile né conveniente a causa del clima generalmente proibitivo. E se anche si riesce a produrre un po’ di vino è sicuramente di qualità scadente. Tant’è vero che da decenni in queste zone le vigne sono completamente scomparse.
Alcuni secoli fa però la situazione era diversa.
Da metà del Settecento la popolazione aveva preso ad aumentare a ritmo sostenuto sia nelle città che nelle campagne e continuò intensamente per tutto il secolo successivo (il comune di Firenzuola dai 4.014 del 1745 passa ai 6.446 abitanti del 1821 e balza ai 10.252 del 1881). All’aumento delle bocche da sfamare, le popolazioni rispondono con la ricerca di sempre nuove terre da mettere a coltura, quindi con l’abbattimento di macchie e di boschi e con il dissodamento di terre incolte. Si creano nuovi poderi anche in zone marginali e impervie per occupare così la crescente popolazione rurale. La gran parte delle terre strappate al bosco, all’incolto e alla sterpaglia veniva coltivata a cereali (base dell’alimentazione di tutta la popolazione, contadina e non, e prodotto tra i più remunerativi sul mercato), oppure ridotta a pascoli nelle zone più alte. Ma i proprietari terrieri grandi e piccoli–sollecitati dalla richiesta del mercato e dalla riserva di braccia a buon prezzo – spingevano i coloni a incrementare la coltivazione delle viti, nonostante le note difficoltà ambientali e climatiche e la conseguente produzione di vini di scarsa qualità, che tuttavia erano assorbiti dalla domanda locale.
Si ricercano così le zone più idonee ad accogliere le vigne: non importa se di piccole o piccolissime dimensioni, l’importante è che siano ben orientate “a solatio”, cioè a sud o sud-est, per assicurare una migliore maturazione dell’uva, e abbiano terreni ben sciolti e quindi drenanti come richiede la vite. Da notare che nei territori appenninici la vite era coltivata in vigne specializzate e non distribuita nei tradizionali filari promiscui e ben distanziati che connotavano il paesaggio agrario delle zone collinari e di pianura del Mugello. Il clima poco confacente alla vite era dunque una variabile secondaria rispetto alla esigenza di produrre comunque un po’ di vino, comunque assai remunerativo, e anche alla necessità di trovare qualche occupazione alle torme di pigionali senza lavoro.
Si diffondono le vigne
Così a partire dal Settecento, la coltivazione della vite (presente sull’Appennino già dal Medioevo, come attestano documenti dell’epoca e anche alcuni capitoli degli Statuti di Firenzuola del 1418) vede una certa espansione anche nei territori poco vocati del firenzuolino e degli altri territori della Romagna Toscana. Ne è testimonianza la sopravvivenza dei tanti toponimi derivati da vigna (La Vigna, Le Vigne, Vignale, Vignali. Vignoni e simili) che oggi denominano o la casa di un antico podere o –appunto -una piccola torre in genere circondata da terre incolte (come ad esempio quella nelle vicinanze di Firenzuola, lungo la strada per San Pietro), o località ora abbandonate e ridotte a sterpaglie o boschi. Nessuno di questi luoghi farebbe oggi immaginare che un tempo era una vigna, ma il toponimo dalla esplicita etimologia e il comune e indispensabile orientamento verso sud o sud-est confermano l’antica presenza delle viti . La stessa diffusione del cognome Vignoli e derivati nei comuni dell’Alto Mugello è una traccia evidente di una lontana e diffusa viticoltura.
Talvolta si ha invece la presenza di una torre, anche imponente come quella vicino alla chiesa di San Pellegrino, che si stenta a definire “da vigna”perché ora è letteralmente scomparso il requisito principale, cioè la sottostante terra per accogliere le viti. Là dov’era la vigna infatti ora passa la strada “imolese”, strada che prima transitava molto più in basso, lasciando quindi una area libera sufficiente per una piccola vigna, come attestano le piante del catasto leopoldino degli anni 1820-30, e come mostra anche una vecchia foto pubblicata in P.C.Tagliaferri, Brento, San Pellegrino, Casetta di Tiara, Angelini Photo Editore, 2011.
La piaga dei furti campestri
Se l’uva è da sempre un prodotto prezioso ovunque e quindi da sorvegliare dall’inizio della maturazione fino alla vendemmia, lo è particolarmente nelle zone appenniniche dove la produzione è più difficoltosa e rara quindi da difendere con maggiore attenzione. Tanto più in tempi in cui – a partire da metà Settecento –si aggrava il fenomeno della disoccupazione nelle campagne e quindi dei furti campestri. Con la crescita demografica infatti aumentano sensibilmente anche nelle zone di montagna le masse di pigionali senza terra e senza occupazione, che sbarcano il lunario con lavori saltuari e mal retribuiti, e diventano una temibile minaccia per i raccolti agricoli. I furti campestri tuttavia costituivano da tempo una piaga sociale endemica delle campagne cui i proprietari di poderi e i piccoli agricoltori non riuscivano a far fronte.
Ma la situazione si aggrava ancora di più quando nel 1774 il Granduca Pietro Leopoldo dà il via alla vendita a privati dei “beni comunali” e alla soppressione degli “usi civici”. Erano queste norme consuetudinarie di origine medievale che assicuravano ai membri di una comunità il diritto di sfruttare, in parte e in determinati periodi, alcuni pascoli (ius pascendi) e boschi (ius lignandi) di proprietà pubblica, ma anche di privati. In tal modo i numerosi pigionali, braccianti e piccoli fittavoli che da sempre vivevano ai margini del mondo contadino, si vedono privati della possibilità di integrare le misere entrate allevando per esempio una capra, una pecora o un maiale, o raccogliendo un po’ di legna. In pratica sentono minacciata la loro stessa sopravvivenza (per approfondire la questione: Filippo Bellandi, Dalla foresta al podere. Storia sociale del bosco dalla preistoria a oggi in Mugello AltoMugello e Val di Sieve, Edifir, Firenze 2007).
Dilagano ulteriormente perciò i furti campestri e il malcontento diffuso si manifesta con sollevazioni popolari un po’ in tutta la Toscana, compreso il Vicariato di Firenzuola sulle cui vaste montagne ricche di pascoli e boschi vivevano schiere di braccianti e pigionali senza terra.
La torre per sorvegliare la vigna
Alla crescente necessità di controllare i preziosi frutti delle vigne, minacciati da una massa di nullatenenti e indigenti che campavano alla giornata, è probabilmente legata la diffusione delle torri da vigna. Dei sistemi di controllo ravvicinato, come strutture più o meno precarie in legno o in muratura costruite direttamente “sul campo”, esistevano verosimilmente anche prima, ma ora con l’ impennata demografica e poi con le riforme di Pietro Leopoldo, pur ispirate a principi di liberalizzazione e di modernizzazione dell’economia, la pressione delle popolazioni disperate diventa drammatica. E i proprietari si difendono moltiplicando le strutture stabili per il controllo continuato delle vigne, giorno e notte nella stagione della maturazione.
Alcune delle torri superstiti nel comune di Firenzuola – in gran parte dislocate lungo la valle del Santerno da Firenzuola a Moraduccio e nelle valli limitrofe come quella del Diaterna e del Rovigo- sono datate in anni di poco precedenti alle riforme leopoldine ( 1769? quella di Rovigo, 1771 quella di Rapezzo, segno di una già diffusa risposta concreta ai furti nelle vigne. Quella di Casalino nei pressi di Visignano è invece del 1813, assai successiva alle riforme leopoldine, ma – se la data corrisponde all’origine e non a un rifacimento/ingrandimento di una precedente– appartenente comunque a un periodo in cui la difesa della vigna continuava ad essere indispensabile. Le altre torri sopravvissute, anche se prive di data incisa, si possono attribuire, sulla base delle ricorrenti caratteristiche costruttive, al periodo che va all’incirca da metà Settecento a metà Ottocento.
Struttura e funzioni
La funzionalità delle torri per il controllo è assicurata dalla loro particolare struttura. Sono a base quadrata di circa tre metri- tre metri e mezzo di lato, quindi, considerato anche lo spessore dei muri, assai anguste all’interno, ma sufficienti ad accogliere una o due persone. In altezza variano da due fino a quattro piani internamente realizzati con tavolati di legno e collegati da una scala sempre di legno. Le aperture sono su un solo lato: la porta d’ingresso e sopra una finestrella per piano. Talvolta al piano terra c’è un caminetto, come in quella di Rapezzo. All’interno si aprono su ogni lato delle strette feritoie svasate (ampie all’interno e strette all’esterno) che permettono la visione completa della sottostante vigna. Rispetto all’area della vigna, le torri sono collocate sempre al margine nord, in posizione dominante per garantire la migliore osservazione e per non fare uggia alle piante. Il materiale da costruzione impiegato è esclusivamente pietra in bozze più o meno regolari, sia per i muri che per il tetto, coperto con sottili lastre di pietra serena disposte sempre su quattro spioventi.
Come si presentavano esternamente le torri? Difficile dire com’erano all’origine, ma le foto più antiche di fine ‘8oo-primi ‘900, ce le mostrano intonacate. Attualmente in quasi tutte le torri superstiti si notano ancora ampi residui di intonaco, mentre in altre, come quella di Rovigo che ha subito vistosi rifacimenti nella parte alta, è meno evidente. In tempi recenti alcuni interventi di restauro di torri da vigna, seppur meritevoli per aver consolidato la struttura e il tetto e averne quindi allungato la vita, hanno riportato il paramento murario a faccia vista e stuccato a cemento, in omaggio al moderno gusto del rustico. Ma hanno purtroppo chiuso i caratteristici fori per i rondoni cancellando così la testimonianza della loro importante funzione alimentare.
Le torri erano attrezzate infatti anche per catturare rondoni e allevare piccioni, indubbiamente risorse alimentari preziose per le popolazioni rurali. Tutte le torri nella parte alta corrispondente all’ultimo piano avevano dei fori circolari ben distribuiti sui quattro lati per l’ingresso dei rondoni che andavano a covare all’interno in apposite cassette di legno: quando i giovani rondoni erano fatti venivano catturati aprendo la cassetta/covo. Per i piccioni il metodo era simile, ma i fori erano più grandi e talvolta concentrati su una o due lastre di pietra appositamente lavorate. Quei fori in file sovrapposte e ben ordinate, oltre ad assicurare proteine nobili assai rare allora nella maggior parte della popolazione, producevano – forse inconsapevolmente – anche un gradevole effetto decorativo che, con l’alternarsi di pieni e vuoti, ingentiliva la struttura alleggerendone la compattezza. Solo alcune presentano all’esterno un altro elemento decorativo: una cornice marcapiano in pietra che gira su i quattro lati (Torri di Moraduccio, San Pellegrino, Rovigo e Bordignano).
Quelle piccole torri erano e sono ancora – benché decimate dall’abbandono e dai crolli – un elemento caratteristico e significativo del paesaggio storico di Firenzuola. In quanto testimoni – minori sì, ma importanti perché ravvivano la memoria di un difficile momento storico delle popolazioni di montagna – vanno salvate dall’incuria e dal pericolo di scomparsa, ma anche dal rischio di restauri inappropriati che cancellino aspetti delle loro antiche funzioni.
Il declino e la scomparsa
Le torri da vigna cominciano a diminuire di importanza fino a perdere il loro significato in seguito ai mutamenti economici e sociali avviati dai primi del Novecento, mutamenti che investono in primo luogo le terre marginali, attratti dalle migliori condizioni di vita e di lavoro offerte da aree più favorevoli vicino ai paesi e alle città. Le vigne vengono abbandonate e le piccole torri subiscono la stessa sorte. Alcune di esse, quelle non isolate e magari ben servite da una strada, vengono ingrandite con l’aggiunta di qualche vano adiacente, e ridotte a piccole abitazioni, come si può notare ad esempio nei pressi di Trapoggio (Monti), di Virli (Coniale) e anche a San Pellegrino.
Ma la maggior parte viene inesorabilmente abbandonata e ben presto diventa un cumulo di pietre fino a scomparire sotto macchie di rovi.
Quelle poche superstiti dunque dovrebbero essere, auspicabilmente, oggetto di attenzione da parte dei proprietari, ma soprattutto da parte degli amministratori locali. I quali potrebbero innanzitutto curare un censimento delle torri sopravvissute, fissare poi i criteri per eventuali interventi di restauro e magari incentivare i proprietari, con qualche incoraggiante agevolazione, ad interventi di salvaguardia.
Acquisire la consapevolezza storica di cosa erano le torri da vigna, rimane comunque preliminare a tutto.
Filippo Bellandi